Pronti all’inabissamento? Allora via. «L’Italia è un buon posto dove fare business. Le condizioni fiscali sono favorevoli, i costi di estrazione bassi, non ci sono rischi politici, le infrastrutture sviluppate, la competizione è limitata ed i produttori possono beneficiare di prezzi elevati per quanto riguarda petrolio e gas». Parola di John Craven, direttore esecutivo della Petroceltic International. La società con sede a Dublino e proprietari a New York, secondo l’ultimo dato utile fornito dal ministero dello Sviluppo Economico, è titolare di alcuni permessi di ricerca in terraferma ed uno nel sottofondo marino (nei pressi delle Isole Tremiti, area protetta dal 1989, denominato “B.R. 268. RG”), equivalenti ad un’area estesa in totale per 1918,56 chilometri quadrati. Una delle ragioni che spingono le multinazionali estere nel Belpaese sono le condizioni economiche tra le più favorevoli al mondo. La Cygam Energy si esprime così: «In Italia, le royalties statali sulla produzione di petrolio sui permessi di esplorazione offshore sono del 4% (che è tra i valori più bassi al mondo di tassazione del petrolio e del gas e meno anche degli Stati Uniti e del Canada), con un provvedimento per cui nessuna royalty è pagata per i primi 300mila barili di petrolio all’anno e per campo. Questo significa una produzione esente dal pagamento di royalty per i primi 822 barili prodotti in un giorno per ogni campo di estrazione». Nella corsa agli idrocarburi sui fondali (presenza stimata pari a 11 milioni di tonnellate) prevalgono in assoluto le società straniere: Northern Petroleum, Shell, Panther Eurek, Puma Petroleum, Audax, Vega Oil. Nomi di facciata che nascondono le mire di David Rockfeller. L’Eni, invece, vanta dieci autorizzazioni che assommano a 2.160, 80 chilometri quadrati. Le concessioni di coltivazione già accordate nel sottofondo marino ammontano a «9 mila kmq». Conti alla mano, lo Stato incassa appena 5 euro e sedici centesimi per metro quadro in concessione annuale. Ci sarà pure un’assicurazione sugli eventuali danni ambientali o, comunque, sull’inquinamento? Mai calcolata oppure stimata: semplicemente non pervenuta e, dunque, prevista. La normativa in materia fissa per le piattaforme offshore una franchigia di produzione di 50 mila tonnellate di oro nero all’anno, sotto la quale non è previsto alcun pagamento di royalties. Secondo il Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse attualmente «nel sottofondo marino sono vigenti n. 25 permessi di ricerca per complessivi 11.689, 19 kmq)» ed è in vigore «n.1 permesso di ricerca di risorse geotermiche per complessivi 678,3 kmq». Il totale è pari ad una superficie di poco inferiore alla Campania: 12 riguardano il canale di Sicilia, 7 l’Adriatico settentrionale, 3 il mare tra Marche e Abruzzo, 2 in Puglia e 1 un Sardegna. Invece, le aree marine oggetto di richiesta (istanze) sono 39: 21 nel canale di Sicilia, 8 tra le Marche e Molise, 7 sulla costa adriatica pugliese, 1 nel nord Adriatico e 2 nel Golfo di Taranto (Jonio).
Allarme rosso – Chi ci guadagna? «Siamo molto
preoccupati – puntualizza Maria Rita d’Orsogna, docente italiana di
matematica alla California State University at Northridge di Los angeles
– Questo petrolio è di scarsa qualità, pieno di impurità e di zolfo.
Non dimentichiamo che il Mediterraneo impiega 100 anni per ripulire le
sue acque superficiali – rileva l’esperta, originaria dell’Abruzzo –
Ogni minimo incidente si trasformerebbe in una catastrofe». Abbiamo
chiesto lumi al ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, ma la
titolare del dicastero ecologico non si è pronunciata. Una richiesta di
chiarimento è giunta al ministro per l’Ambiente, anche in sede
parlamentare, ma a tutt’oggi non è pervenuta alcuna risposta. Infatti il
26 gennaio 2011, un’interrogazione a risposta scritta (numero 4-10587)
in riferimento alle attività estrattive della Northern Petroleum con
sede a Londra e capitali negli Usa, poneva una serie di quesiti: «di
quali informazioni disponga il Governo in merito alla possibilità che un
terremoto sia generato nel canale di Sicilia a causa di attività
estrattiva; quali iniziative si stiamo promuovendo per tutelare il
Mediterraneo dal rischio trivellazioni anche rispetto agli altri Paesi
che vi si affacciano; se non si ritenga comunque di assumere iniziative
per interdire nel frattempo le trivellazioni e comunque disincentivarle
economicamente?». In particolare i fondali siciliani preoccupano per
l’esistenza di forti rischi sismici. Una ricerca condotta dalla sezione
di Catania dell’Istituto di geofisica e vulcanologia
evidenzia la presenza al largo di Sciacca di una vasta area vulcanica
«attiva a grandi dimensioni», ma anche di altri vulcani sottomarini che,
ricorda sempre lo studio, potrebbero «in qualsiasi momento dare luogo a
eruzioni sottomarine di tipo esplosivo le quali, a loro volta,
potrebbero generare tsunami. Inoltre, sottolineano i deputati del
centro-sinistra «ci sono i possibili danni che un’attività legata
all’estrazione del petrolio potrebbe portare per la flora e per la fauna
marina». Attorno alla Sicilia, attualmente sono dodici le concessioni
vigenti sia per la ricerca che per l’estrazione di petrolio e riguardano
anche zone di elevato valore ambientale.
Guerrieri dell’arcobaleno – Nuove richieste per
esplorazioni petrolifere offshore incombono sulle le zone più sensibili
del Canale di Sicilia, i banchi d’alto mare. L’Audax Energy,
già nota nel Canale per le esplorazioni in acque tunisine, punta adesso
ai giacimenti italiani al largo di Pantelleria. Nel nuovo rapporto “Le
mani sul tesoro” Greenpeace documenta l’enorme bellezza e il valore
biologico dell’area, chiedendo la sua tutela con la creazione di una
riserva marina. «Mentre gli italiani sono ancora in vacanza – afferma
Giorgia Monti, responsabile della campagna Mare di Greenpeace Italia –
invece di tutelare le bellezze naturali di cui il turismo vive, si
moltiplicano i piani per distruggere i nostri mari. I banchi del Canale
di Sicilia sono ricchissimi di biodiversità. È inammissibile che vengano
svenduti per minacciosi progetti di ricerca, richiesti da compagnie
petrolifere tramite una documentazione troppo spesso viziata e
insufficiente a dare alcun tipo di garanzia». L’Audax Energy Ltd (ADX)
sta provando a ottenere permessi di esplorazione nelle acque del Canale
attraverso una piccola compagnia, l’Audax Energy Srl, di cui è
totalmente proprietaria ma con sede legale in Italia e con un capitale
sociale irrisorio. Al piano delle compagnie petrolifere Greenpeace
contrappone «la proposta di una riserva marina, che vieti nelle aree più
sensibili ogni attività estrattiva, compresa la pesca. Il disastro
della Deep Water Horizon e il più recente sversamento di petrolio al
largo delle coste scozzesi non lasciano dubbi: queste attività sono una
minaccia inaccettabile per il mare e per le popolazioni costiere che da
esso dipendono. Chiediamo con urgenza al ministro dell’Ambiente di
bloccare ogni folle progetto di esplorazione petrolifera nel Canale di
Sicilia e di attivarsi immediatamente per garantire la dovuta tutela per
le aree più vulnerabili» conclude Monti.
Scatole cinesi – La Audax Energy è detenuta al 100 per cento dalla Audax Resources,
con quartier generale a Perth in Australia. La società ha iniziato le
operazioni di trivellazione a circa 10 miglia dalle coste di
Pantelleria. Qui, praticamente sulla linea di confine tra Tunisia e
Italia, la Audax ha ottenuto una concessione per esplorare un’area di
circa 150 Kmq da cui la società australiana spera di poter ottenere fino
a 270 milioni di barili. Il giacimento si chiama Lambouka
e viene sfruttato in conseguenza di un doppio permesso, ottenuto dalle
autorità tunisine e italiane. Ad annunciare l’inizio della perforazione è
un bollettino dell’Audax, datato 3 agosto 2010. In esso si legge che
«alle 19.30 del 2 agosto, ora locale tunisina, l’impianto di
trivellazione ha iniziato le perforazioni». L’esordio non è stato
facile. Lo stesso bollettino del 3 agosto informa che le tappe di
avvicinamento «sono state rallentate da 53 ore di cattivo tempo che
hanno impedito di installare il Bop». Blow out preventer: è lo strumento
che serve a mettere in sicurezza i pozzi di idrocarburi durante la loro
perforazione. Lo stesso congegno che nel golfo del Messico ha fatto
cilecca. Singolare coincidenza: la Audax presenta un collegamento con la
San Leon Energy, altra società petrolifera (casa madre irlandese) che
tenta di dare l’assalto ad un’area di 483 chilometri quadrati al largo
delle coste di Sciacca. La Audax Energy srl, infatti, è amministrata da Luigi Albanesi, imprenditore che risulta anche amministratore unico della Grove Energy (altra società petrolifera controllata da un gruppo canadese) e della Peal Petroleum.
Quest’ultima ha sede a Roma, via Guerrieri numero 5, lo stesso
indirizzo della Audax. La Peal Petroleum è la società di studi
ambientali che predispone i progetti di estrazione. La relazione
presentata al ministro per avere il via libera è stata scritta dalla
Peal Petroleum sulle analisi coordinate da Luigi Albanesi, oggi
amministratore unico dell’Audax e al centro di polemiche per un’analoga
relazione presentata da un’altra società per le trivellazioni di fronte
al mare di Sciacca, ricca di imprecisioni. Albanesi raggiunto al
telefono fa scena muta. Uno studio di 36 pagine, ricco di grafici e
numeri, ma anche di sviste e omissioni, che il Comune di Sciacca ha
inviato alla magistratura. Lo hanno realizzato i geologi della Peal
Petroleum per conto della San Leon srl, compagnia petrolifera con un
capitale sociale di 10 mila euro. Quando ai primi di maggio 2010
l’ingegnere Mario Di Giovanna si trovò tra le mani le
carte che annunciavano i lavori, autorizzati dal ministero dello
Sviluppo economico, notò qualcosa di strano. L’obiettivo era spianare la
strada alle trivelle in un’area marina di 482 chilometri quadrati che
va da Selinunte a Capo Bianco, a meno di due chilometri dalla costa. A
pagina 19 dello studio i sospetti del Di Giovanna diventano certezze: i
geologi della Peal scrivono che «l’area di indagine» è frequentata da
«piccole imbarcazioni a strascico… che trovano ricovero nei porti di
Gela, Pozzallo e Scoglitti». Vale a dire: a 100 chilometri di distanza.
Copia e incolla: il paragrafo in questione è identico ad un’altra
indagine, realizzata nel marzo del 2008 sul Plateau Hybleo. A pagina 36
la Peal Petroleum sostiene che il «traffico marittimo per le motonavi di
appoggio… sarà limitato ad un passaggio giornaliero da e verso il porto
d´approdo più vicino, presumibilmente quello di Ancona». Cosa c’entra
Sciacca con il Mar Adriatico?». A circa 26 miglia nautiche dalla costa
di Sciacca e a 39 da Pantelleria, sorge un isolotto di roccia lavica che
sfiora la superficie. Lo eruttò la terra nel 1831 dando vita all’isola
Ferdinandea, una delle tante bocche vulcaniche di un massiccio complesso
sottomarino. Dei rischi sismici e vulcanici, nello studio della Peal,
non c’è traccia. Le visure confermano l’irrisorio capitale della San
Leon. Il consiglio di amministrazione è composto da tre irlandesi, un
americano e un inglese. Paul James Sullivan, William Artur Philip Thompson III, Charles McEvoy, Oisin Fanning. Hanno tutti domicilio nello stesso numero civico, il 93 di via Rubichi, a Monteroni, un paesino in provincia di Lecce. L’amministratore delegato è Finbarr Bryant,
responsabile legale di un´altra società, la Petroceltic Elsa, che ha
già ottenuto delle concessioni per le ricerche nell’Adriatico, dove il
Wwf ha denunciato le stesse irregolarità presenti nelle carte siciliane.
La San Leon srl è controllata dalla San Leon Limited,
società a responsabilità limitata, con sede al numero 6 di Northbrook
Road nella capitale irlandese. Lo stesso della Petroceltic, che, come la
San Leon, vanta un capitale di 10 mila euro. A Dublino risponde uno
studio di consulenza: LHM Casey McGrath. Abbastanza perché se ne occupi la magistratura.
Fonte: Informare per resistere