lunedì 30 luglio 2012

Un mare di trivelle


 Pronti all’inabissamento? Allora via. «L’Italia è un buon posto dove fare business. Le condizioni fiscali sono favorevoli, i costi di estrazione bassi, non ci sono rischi politici, le infrastrutture sviluppate, la competizione è limitata ed i produttori possono beneficiare di prezzi elevati per quanto riguarda petrolio e gas». Parola di John Craven, direttore esecutivo della Petroceltic International. La società con sede a Dublino e proprietari a New York, secondo l’ultimo dato utile fornito dal ministero dello Sviluppo Economico, è titolare di alcuni permessi di ricerca in terraferma ed uno nel sottofondo marino (nei pressi delle Isole Tremiti, area protetta dal 1989, denominato “B.R. 268. RG”), equivalenti ad un’area estesa in totale per 1918,56 chilometri quadrati. Una delle ragioni che spingono le multinazionali estere nel Belpaese sono le condizioni economiche tra le più favorevoli al mondo. La Cygam Energy si esprime così: «In Italia, le royalties statali sulla produzione di petrolio sui permessi di esplorazione offshore sono del 4% (che è tra i valori più bassi al mondo di tassazione del petrolio e del gas e meno anche degli Stati Uniti e del Canada), con un provvedimento per cui nessuna royalty è pagata per i primi 300mila barili di petrolio all’anno e per campo. Questo significa una produzione esente dal pagamento di royalty per i primi 822 barili prodotti in un giorno per ogni campo di estrazione». Nella corsa agli idrocarburi sui fondali (presenza stimata pari a 11 milioni di tonnellate) prevalgono in assoluto le società straniere: Northern Petroleum, Shell, Panther Eurek, Puma Petroleum, Audax, Vega Oil. Nomi di facciata che nascondono le mire di David Rockfeller. L’Eni, invece, vanta dieci autorizzazioni che assommano a 2.160, 80 chilometri quadrati. Le concessioni di coltivazione già accordate nel sottofondo marino ammontano a «9 mila kmq». Conti alla mano, lo Stato incassa appena 5 euro e sedici centesimi per metro quadro in concessione annuale. Ci sarà pure un’assicurazione sugli eventuali danni ambientali o, comunque, sull’inquinamento? Mai calcolata oppure stimata: semplicemente non pervenuta e, dunque, prevista. La normativa in materia fissa per le piattaforme offshore una franchigia di produzione di 50 mila tonnellate di oro nero all’anno, sotto la quale non è previsto alcun pagamento di royalties. Secondo il Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse attualmente «nel sottofondo marino sono vigenti n. 25 permessi di ricerca per complessivi 11.689, 19 kmq)» ed è in vigore «n.1 permesso di ricerca di risorse geotermiche per complessivi 678,3 kmq». Il totale è pari ad una superficie di poco inferiore alla Campania: 12 riguardano il canale di Sicilia, 7 l’Adriatico settentrionale, 3 il mare tra Marche e Abruzzo, 2 in Puglia e 1 un Sardegna. Invece, le aree marine oggetto di richiesta (istanze) sono 39: 21 nel canale di Sicilia, 8 tra le Marche e Molise, 7 sulla costa adriatica pugliese, 1 nel nord Adriatico  e 2 nel Golfo di Taranto (Jonio).

Allarme rosso – Chi ci guadagna? «Siamo molto preoccupati – puntualizza Maria Rita d’Orsogna, docente italiana di matematica alla California State University at Northridge di Los angeles – Questo petrolio è di scarsa qualità, pieno di impurità e di zolfo. Non dimentichiamo che il Mediterraneo impiega 100 anni per ripulire le sue acque superficiali – rileva l’esperta, originaria dell’Abruzzo – Ogni minimo incidente si trasformerebbe in una catastrofe». Abbiamo chiesto lumi al ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, ma la titolare del dicastero ecologico non si è pronunciata. Una richiesta di chiarimento è giunta al ministro per l’Ambiente, anche in sede parlamentare, ma a tutt’oggi non è pervenuta alcuna risposta. Infatti il 26 gennaio 2011,  un’interrogazione a risposta scritta (numero 4-10587) in riferimento alle attività estrattive della Northern Petroleum con sede a Londra e capitali negli Usa, poneva una serie di quesiti: «di quali informazioni disponga il Governo in merito alla possibilità che un terremoto sia generato nel canale di Sicilia a causa di attività estrattiva; quali iniziative si stiamo promuovendo per tutelare il Mediterraneo dal rischio trivellazioni anche rispetto agli altri Paesi che vi si affacciano; se non si ritenga comunque di assumere iniziative per interdire nel frattempo le trivellazioni e comunque disincentivarle economicamente?». In particolare i fondali siciliani preoccupano per l’esistenza di forti rischi sismici. Una ricerca condotta dalla sezione di Catania dell’Istituto di geofisica e vulcanologia evidenzia la presenza al largo di Sciacca di una vasta area vulcanica «attiva a grandi dimensioni», ma anche di altri vulcani sottomarini che, ricorda sempre lo studio, potrebbero «in qualsiasi momento dare luogo a eruzioni sottomarine di tipo esplosivo le quali, a loro volta, potrebbero generare tsunami. Inoltre, sottolineano i deputati del centro-sinistra «ci sono i possibili danni che un’attività legata all’estrazione del petrolio potrebbe portare per la flora e per la fauna marina». Attorno alla Sicilia, attualmente sono dodici le concessioni vigenti sia per la ricerca che per l’estrazione di petrolio e riguardano anche zone di elevato valore ambientale.
Guerrieri dell’arcobaleno – Nuove richieste per esplorazioni petrolifere offshore incombono sulle le zone più sensibili del Canale di Sicilia, i banchi d’alto mare. L’Audax Energy, già nota nel Canale per le esplorazioni in acque tunisine, punta adesso ai giacimenti italiani al largo di Pantelleria. Nel nuovo rapporto “Le mani sul tesoro” Greenpeace documenta l’enorme bellezza e il valore biologico dell’area, chiedendo la sua tutela con la creazione di una riserva marina. «Mentre gli italiani sono ancora in vacanza – afferma Giorgia Monti, responsabile della campagna Mare di Greenpeace Italia – invece di tutelare le bellezze naturali di cui il turismo vive, si moltiplicano i piani per distruggere i nostri mari. I banchi del Canale di Sicilia sono ricchissimi di biodiversità. È inammissibile che vengano svenduti per minacciosi progetti di ricerca, richiesti da compagnie petrolifere tramite una documentazione troppo spesso viziata e insufficiente a dare alcun tipo di garanzia». L’Audax Energy Ltd (ADX) sta provando a ottenere permessi di esplorazione nelle acque del Canale attraverso una piccola compagnia, l’Audax Energy Srl, di cui è totalmente proprietaria ma con sede legale in Italia e con un capitale sociale irrisorio. Al piano delle compagnie petrolifere Greenpeace contrappone «la proposta di una riserva marina, che vieti nelle aree più sensibili ogni attività estrattiva, compresa la pesca. Il disastro della Deep Water Horizon e il più recente sversamento di petrolio al largo delle coste scozzesi non lasciano dubbi: queste attività sono una minaccia inaccettabile per il mare e per le popolazioni costiere che da esso dipendono. Chiediamo con urgenza al ministro dell’Ambiente di bloccare ogni folle progetto di esplorazione petrolifera nel Canale di Sicilia e di attivarsi immediatamente per garantire la dovuta tutela per le aree più vulnerabili» conclude Monti.
Scatole cinesi – La Audax Energy è detenuta al 100 per cento dalla Audax Resources, con quartier generale a Perth in Australia. La società ha iniziato le operazioni di trivellazione a circa 10 miglia dalle coste di Pantelleria. Qui, praticamente sulla linea di confine tra Tunisia e Italia, la Audax ha ottenuto una concessione per esplorare un’area di circa 150 Kmq da cui la società australiana spera di poter ottenere fino a 270 milioni di barili. Il giacimento si chiama Lambouka e viene sfruttato in conseguenza di un doppio permesso, ottenuto dalle autorità tunisine e italiane. Ad annunciare l’inizio della perforazione è un bollettino dell’Audax, datato 3 agosto 2010. In esso si legge che «alle 19.30 del 2 agosto, ora locale tunisina, l’impianto di trivellazione ha iniziato le perforazioni». L’esordio non è stato facile. Lo stesso bollettino del 3 agosto informa che le tappe di avvicinamento «sono state rallentate da 53 ore di cattivo tempo che hanno impedito di installare il Bop». Blow out preventer: è lo strumento che serve a mettere in sicurezza i pozzi di idrocarburi durante la loro perforazione. Lo stesso congegno che nel golfo del Messico ha fatto cilecca. Singolare coincidenza: la Audax presenta un collegamento con la San Leon Energy, altra società petrolifera (casa madre irlandese) che tenta di dare l’assalto ad un’area di 483 chilometri quadrati al largo delle coste di Sciacca. La Audax Energy srl, infatti, è amministrata da Luigi Albanesi, imprenditore che risulta anche amministratore unico della Grove Energy (altra società petrolifera controllata da un gruppo canadese) e della Peal Petroleum. Quest’ultima ha sede a Roma, via Guerrieri numero 5, lo stesso indirizzo della Audax. La Peal Petroleum è la società di studi ambientali che predispone i progetti di estrazione. La relazione presentata al ministro per avere il via libera è stata scritta dalla Peal Petroleum sulle analisi coordinate da Luigi Albanesi, oggi amministratore unico dell’Audax e al centro di polemiche per un’analoga relazione presentata da un’altra società per le trivellazioni di fronte al mare di Sciacca, ricca di imprecisioni. Albanesi raggiunto al telefono fa scena muta. Uno studio di 36 pagine, ricco di grafici e numeri, ma anche di sviste e omissioni, che il Comune di Sciacca ha inviato alla magistratura. Lo hanno realizzato i geologi della Peal Petroleum per conto della San Leon srl, compagnia petrolifera con un capitale sociale di 10 mila euro. Quando ai primi di maggio 2010 l’ingegnere Mario Di Giovanna si trovò tra le mani le carte che annunciavano i lavori, autorizzati dal ministero dello Sviluppo economico, notò qualcosa di strano. L’obiettivo era spianare la strada alle trivelle in un’area marina di 482 chilometri quadrati che va da Selinunte a Capo Bianco, a meno di due chilometri dalla costa. A pagina 19 dello studio i sospetti del Di Giovanna diventano certezze: i geologi della Peal scrivono che «l’area di indagine» è frequentata da «piccole imbarcazioni a strascico… che trovano ricovero nei porti di Gela, Pozzallo e Scoglitti». Vale a dire: a 100 chilometri di distanza. Copia e incolla: il paragrafo in questione è identico ad un’altra indagine, realizzata nel marzo del 2008 sul Plateau Hybleo. A pagina 36 la Peal Petroleum sostiene che il «traffico marittimo per le motonavi di appoggio… sarà limitato ad un passaggio giornaliero da e verso il porto d´approdo più vicino, presumibilmente quello di Ancona». Cosa c’entra Sciacca con il Mar Adriatico?». A circa 26 miglia nautiche dalla costa di Sciacca e a 39 da Pantelleria, sorge un isolotto di roccia lavica che sfiora la superficie. Lo eruttò la terra nel 1831 dando vita all’isola Ferdinandea, una delle tante bocche vulcaniche di un massiccio complesso sottomarino. Dei rischi sismici e vulcanici, nello studio della Peal, non c’è traccia. Le visure confermano l’irrisorio capitale della San Leon. Il consiglio di amministrazione è composto da tre irlandesi, un americano e un inglese. Paul James Sullivan, William Artur Philip Thompson III, Charles McEvoy, Oisin Fanning. Hanno tutti domicilio nello stesso numero civico, il 93 di via Rubichi, a Monteroni, un paesino in provincia di Lecce. L’amministratore delegato è Finbarr Bryant, responsabile legale di un´altra società, la Petroceltic Elsa, che ha già ottenuto delle concessioni per le ricerche nell’Adriatico, dove il Wwf ha denunciato le stesse irregolarità presenti nelle carte siciliane. La San Leon srl è controllata dalla San Leon Limited, società a responsabilità limitata, con sede al numero 6 di Northbrook Road nella capitale irlandese. Lo stesso della Petroceltic, che, come la San Leon, vanta un capitale di 10 mila euro. A Dublino risponde uno studio di consulenza: LHM Casey McGrath. Abbastanza perché se ne occupi la magistratura.
Fonte: Informare per resistere

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